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Mirko Locatelli

Editoriale 23/2025

Al cuore delle cose

Milano, 22 ottobre 1974 – Casorzo Monferrato, 31 maggio 2025
Non credo di avere mai trovato le parole giuste per parlare di Mirko Locatelli e del suo cinema. E tantomeno sono sicuro di saperlo fare ora che è passato così poco da quando se ne è andato, a 50 anni, il 31 maggio 2025, lasciando Giuditta Tarantelli - compagna di sempre, di vita e lavoro - e un vuoto che non è del cinema italiano, ma del cinema come lo vogliamo. E, perdonate la prima persona, come lo volevo. Perché non può che essere un ricordo personale, questo. Mirko Locatelli era uno di quei pochissimi registi che ho avuto l’ardire e l’onore, nel mio piccolo, di seguire, consigliare, sostenere (naturalmente senza che ne avesse realmente bisogno) dal momento in cui l’ho conosciuto. Perché ero ammirato dalla sua idea di settima arte, così importante per me: raffinata e brutale, chirurgica ed empatica, priva di orpelli, tutta in sottrazione, al cuore delle cose, potentissima. Il riflesso esatto e commovente del suo essere e stare al mondo, e del suo reimmaginarlo. Perché quando si parla di cinema, si parla di rimettere in ordine le cose che contano. Riguardarle, rivederle, rifondarle. E così, nel discutere con lui, nel commentare con lui l’esito dei suoi lavori, ho imparato a conoscere l’uomo. Sì, c’era sempre un suo film, tra di noi. Ma il cinema non era un pretesto: era un luogo d’incontro. E allora voglio partire dal suo ultimo La memoria del mondo, un film sulle «tracce che lasciamo», sulle cose che riaffiorano dall’oblio, sulla fatica patetica e ineludibile dell’esserci e del provare a restare. Ci sono tre personaggi principali. Quelli che mi interessano, qui, sono quello dell’artista, ovvero un uomo che è un simbolo, e che è detto, fatto, costruito anche e soprattutto (ma non solo) dal riconoscimento degli altri, e quello del biografo, che per dirlo, farlo, costruirlo, ricorre ai modi di una letteratura tutto sommato mediocre, a una parola piena di pathos posticcio, a poesia da due lire, a immaginari di riporto, una figura struggente, di impiegato e vampiro. Tutto troppo vicino a queste righe, avrebbe pensato Mirko. No, non lo avrebbe detto: lo avrei capito da solo. E non ci sarebbe stato giudizio o morale nel suo sguardo: perché lui e il suo cinema lo sapevano benissimo, che si è, e che si ama, solamente come si riesce, come si può. Mirko Locatelli era un grande regista, lo capisco ancora meglio oggi dopo avere rivisto i suoi film (tutti sulla cura dell’altro, sul debito emotivo, sul senso di colpa, su un’ecologia di relazioni, su un effetto domino di sentimenti scorti sull’epidermide, sul corpo, negli occhi dei personaggi), perché sapeva che il cinema era scolpire il tempo, la cultura, il sapere che lo spettatore si porta in sala, frustrarlo e stimolarlo, non circuirlo con immagini belle, con la facile poesia: lui dava quanto serviva, non ricorreva a nulla che ridondasse e spiegasse, faceva abitare e ponderare i vuoti, sapeva che ogni uomo è un segreto e suggeriva quel che sta oltre il nascondimento con precisione e pudore. Toglieva, lasciava quel che bastava per immaginare, per entrare nel film, per sentirlo, intensamente, sottotraccia. Era autore di finali fortissimi e imprevisti, controtempo, di quelli che lasciano sconcertati, di quelli che restano. Penso a quello di I corpi estranei, con il padre toscano e burbero di un neonato probabilmente guarito da un tumore al cervello (Filippo Timi) che chiama con un rude «oh!» l’immigrato tunisino prima maltrattato e reduce dal lutto di un amico (il non professionista Jaouher Brahim, perché il suo cinema era un laboratorio, un’alchimia di registri ed esperienze lontane), e lo fa con un misto di colpa, gratitudine, compassione che non sa e non può esprimere a parole. Il giovane si avvicina riluttante, lui gli dice: «Bella camicia», il ragazzo prende la mano del neonato, guarda (per errore? Ma quanta grazia c’è in quell’errore?) in camera, e il film finisce, dando forma a un sentimento che non è possibile dire in modi differenti, se non con il cinema. Lo esemplificava bene il suo primo lungo, Il primo giorno d’inverno: era figlio di Bresson, di Dumont, dei Dardenne. Ma non serve l’egida di nessuno, per ricordarlo. Le tracce che lascia sono i suoi film, i finali che risuonano nella testa e nel corpo perché un’opera deve finire dentro di te, e queste parole, forse di mediocre letteratura, sono solo quello che posso, quello che riesco, per ripagare una persona e un talento che ho amato, e provare a dare l’idea del vuoto che ha lasciato.

FilmTv 23/2025

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